IL SEGNO DI MASTROIANNI COME TRACCIA DELL'INFINITO

Le stampe d'arte o i disegni degli scultori hanno in genere una qualità che li rende diversi da quelli dei pittori per una maggiore plasticità, per l'uso diverso, in un certo senso più costruttivo, della linea e della macchia, per l'aggressività impetuosa delle superfici. A partire da Battaglia del 1962 le incisioni di Umberto Mastroianni rivelano questa diversità e questa capacità di evidenziazione degli organismi compositivi, come se il segno divenisse elemento aggettante. A ciò concorre anche il procedimento tecnico che il maestro di Fontana Liri ha elaborato per le sue lastre calcografiche, un procedimento che è discorde da quello tradizionale dell'acquaforte ricavata da una placca di zinco o di rame.
In effetti, Mastroianni si è servito dello stesso medium tattile che egli adopera in scultura; ha cioè lavorato gli originali della matrice come se fossero destinati alla fusione in bronzo. Ottenuto quel positivo, invece che la madre forma cava che si usa per il getto, ha impiegato un negativo di piombo (e qualche altra volta di ottone), al pari di un marchio, di un bassorilievo violento e pressante che, abbassandosi sul foglio con l'immane pianoforma del torchio, lo accogliesse a guisa di tenera lama, lo piegasse alle sue minute e sottili articolazioni, staffilature e ferite, lo increspasse di quelle lacerazioni che brillano con fiero cipiglio metallico in un'accattivante, enigmatica presenza di tagli e fiori in rilievo quasi dal vero. Il tutto, alla fine, non è la funzione di quello che non è, ossia del bronzo e dell'acciaio: ma ne conserva la bellezza spoglia e severa.
Se le puntesecche e le acquaforti nascevano dal dinamismo della materia, le litografia eseguite nel 1995 da "La Sfinge Malaspina" di Ascoli Piceno sgorgano dalla purificazione fenomenologica, rispondono alla putrefazione degli inchiostri calcografici e all'artificio dei materiali industriali con lucidità e purezza. Lavorano a ritroso dall'interno per rilevare un nitore che echeggia dagli antichi conflitti delle materie passate alchemicamente dalla notte all'alba, da Thanatos a Ghenos. E' come se un nucleo metamorfico le avesse fecondate, trasformandole in strumento di rinascita, esattamente l'opposto dell'acquaforte Belfagor del 1988, piena ancora di tragedia e di storia, di rovine e di ricordi. Le litografie del 1995 Composizione e Lara - pure se mostrano la loro nervatura teatrale e in essa canalizzano il grande mito dell'immagine oscura - si dissociano da quella carica inquietante, sono il simbolo del divenire e del futuro; si lasciano coinvolgere dal gioco della vita e dalle sue energie fecondatrici.
Negli altri tre fogli litografici Enyo-me, Eos "dalle rosee dita" e Noreia (sempre stampati nel 1995 da "La Sfinge Malaspina") il segno sottilissimo di Mastroianni è aggrivitazionale; ma qui tutto ciò è ottenuto - sia le cose descritte sia la mente di colui che le scrive - grazie a quella perdita di senso che la filosofia zen chiama un satori: cioè l'aggravitazionalità viene intesa come la condizione perchè l'infinito stesso scriva, essa è la fonte della traccia dell'infinito quando questo viene a contatto col finito. Simile al tavoliere su cui muove i pezzi l'evo-fanciullo di Eraclito, la mano dell'artista si rigira su se stessa come se fosse non un atto di ragione ma un fatto di sensibilità esasperata sulle punte di una meteria cromatica sfuggente al suo peso.
Lo Zen cerca di avvicinare i due momenti fino, al limite, a considerarli uno solo; ma l'unità dell'atto, interno/esterno, è solo al limite. Il non-atto Zen, il satori di Mastroianni racchiude proprio le misure dell'atto. Come uno dei maestri orefici bizantini, che incapsulano nei loro pulpiti d'oro avori egiziani, pietre dure persiane, coppe, scacchi, calcedoni romani, egli combina, mescola, contamina, cesella le immagini ereditate. Nelle litografie in questione le figure non sono mai intere: vengono composte con particolari strappati da fonti diverse, accostati e intarsiati; opere di prodigiosa oreficeria, non racconti iconici. Nasce un'impressione di denso gremito, affollato, trasformando la sua morbida e inafferrabile tékhne grafica nell'unico luogo dove gli spettri amino abitare: quello, per dirla con Borges, in cui il reale e l'immaginario, il concreto e l'utopico, la storia e il mito, sono elementi archetipici di una stessa verità.

FLORIANO DE SANTI