Intervista di Massimo Consorti a

Vittorio Amadio



Lo studio di Vittorio Amadio, artista ascolano appena reduce da una mostra a Lipsia, e in partenza per Stoccolma, Berlino, Barcellona e Roma (sue prossime tappe), è un luogo in cui i bambini troverebbero di che divertirsi. Una sorta di grande parco giochi in cui imparare la "manualità" ed entrare in contatto con la materia o, meglio, con i materiali che adopera per realizzare le sue opere. Ci sono barattoli di colori, c'è il legno, il metallo, ci sono i sassi del fiume Tronto che, fra le sue mani, diventano opere d'arte. Ci sono lamine di zinco, argento e oro. Ci sono risme di carta, fornite dalle migliori cartiere italiane, ordinate appositamente e telai, torni, martelli, bulini, conii inventati, creati, costruiti per "rendere visivamente il meglio del meglio". Ma Vittorio Amadio, ex dirigente d'industria, ex responsabile di compagnie petrolifere, sindacalista antelitteram ("il lavoro lo davo ai ragazzi che ne avevano davvero bisogno e non perché qualcuno me li avesse raccomandati") è, soprattutto, un folletto che ha in sè il germe della genialità, quello che passa attraverso le vibrazioni dei materiali, lo "spessore" del colore, la purezza delle pietre preziose, il gusto per l'impossibile.

Lo abbiamo incontrato dopo esserci persi fra le stanze di Palazzo Malaspina, persi fra i suoi quadri, le sue sculture, i suoi archivi e le foto delle decine di mostre realizzate all'estero. Quella che doveva essere un'intervista sull"'artista" Vittorio Amadio, si è trasformata in un lungo colloquio che ha finito per metterne a nudo aspetti altrimenti non visibili nè, tanto meno intuibili, se non attraverso un'analisi estremamente approfondita delle sue opere. La stessa visione delle "cose del mondo" è strettamente legata al suo modo di esprimersi in arte e attraverso i suoi dipinti, le sue sculture, le sue medaglie, i suoi gioielli, i magnifici libricini che confeziona con le sue mani in un mix, a volte esaltante, di abilità artigianale e creatività artistica.

Girando per il suo studio e, soprattutto, osservando le sue opere non è possibile fare a meno di notare un uso della totalità della materia, dei materiali. Cos'è per lei la materia?

La materia, i materiali, testimoniano il rapporto quotidiano che l'artista ha con le cose, gli oggetti, le persone e con il senso che le stesse cose hanno. La mia carica della materia è continua perché proprio dalla materia riesco a sviluppare la mia curiosità fino all'invenzione pura anche se poi, il senso vero della mia ricerca è quello che passa attraverso l'uomo, il rapporto tra gli uomini e l'intelligenza che l'uomo contraddistingue. C'è una corrente di pensiero che tende a dare per conclusa la nostra esperienza intellettiva. Tutto ciò non è assolutamente vero perché non si può dare per concluso l'assoluto, la fantasia, la creatività e il punto di contatto massimo con Dio che ci ha voluto a sua immagine e somiglianza.

Come vive un artista il "tutto" o il "nulla" che lo circonda?

Lo vive nella sua contemporaneità. Guai se un artista vivesse a ritroso, si toglierebbe il gusto della "velocità" del suo tempo. Il capire prima degli altri il mondo, le cose del mondo, percepire i cambiamenti in atto e anticiparli sono sempre state le caratteristiche principali di un artista, sia contemporaneo che del passato. Non tendere all'assoluto dell'intelligenza divina, capire solo il presente non fa parte dell'arte né, tanto meno, di un artista.

Torniamo per un attimo alla materia: lei adopera tutto l"'adoperabile", dai sassi di fiume ai diamanti, che tipo di vibrazioni ne ricava?

Ci sono materiali che, ad esempio, mi offrono l'opportunità di riflettere. Questione di durezza o tenerezza, maneggevolezza e duttilità. Credo di essere un gestuale nato, amo il contatto con la materia e la sua difficoltà o meno ad essere modellata mi produce, appunto, il riflettere non solo sulla materia ma, soprattutto, su me stesso e sul senso la mia arte. Le vibrazioni non sono tanto legate al rapporto con il materiale ma con le forme che esso assume nel momento in cui cambia fino a raffigurare il progetto che ho in mente.



Qual è, invece, il suo rapporto con il colore?

Il colore è sullo stesso piano della materia. Se osserva i miei dipinti si renderà conto che per me il colore è spessore, è volume, è spazio, è opportunità, è integrità, è un qualcosa si muove anche se su una superficie bidimensionale. A volte basta un gesto, un segno, un movimento, un colore messo in un punto della tela piuttosto che in un altro a dare il senso della creatività di un artista; creatività, velocità, gestualità sono parti integranti del nostro tempo. Vede, noi viviamo molto più a lungo dei nostri decessori, abbiamo molte più informazioni di loro, maggiori opportunità, viviamo in modo diverso il rapporto con l'infinito, abbiamo una diversa percezione del rapporto fra spazio e tempo, tendiamo a uniformare, a omogeneizzare le "piccole masse" e le grandi masse" ma è proprio partendo dal concetto di "massa" che l'artista riesce a trovare se stesso. Il colore è un processo, è un movimento, è una massa, è sostanza, è dimensionalità. Il colore ha delle potenzialità, da questo punto di vista, che il nostro tempo non ha ancora né compreso né definito. Potremmo entrare nel campo delle sensazioni e delle vibrazioni per definire meglio il mio rapporto con il colore, mentre non entrerei in concetti puramente estetici come la bellezza, perché intesa come viene erroneamente percepita oggi, essa rappresenta solo una convenzione statica mentre arte ha bisogno di un dinamismo che va oltre il tutto per riuscire ad avvicinarsi all’infinito, per entrare minimamente in contatto con l'intelligenza divina

Con che colore raffigurerebbe Dio?

Per me Dio è forza, è comunione, è decisione, è creazione, è uno specchio di noi stessi, comunicativa, sicurezza, inventiva. Come si fa a dare un unico colore a tante qualità, tanti momenti di profonda riflessione? Potrei risponderle che Dio è il colore che uno opera nel momento in cui lo pensa e a seconda dell'aspetto che ne vuole sottolineare. In quello stesso istante il colore diventa quasi un atto di coraggio: una tela che si tinge di rosso, di verde, di azzurro ma, alla fine, di emozioni.

Lei ha dei colori che predilige e ai quali assegna ruoli specifici nella sua arte?

Il colore è parte di una convenzione, ma anche della possibilità di possedere informazioni. Ci sono soggetti che hanno moltissime informazioni, altri meno. Avere più informazioni, in senso pittorico, significa superare il concetto stesso di colore, superare perfino l'immaginazione.
Quelli con meno informazioni, che poi sono gli artisti che vivono in funzione dei media, adottano un sistema che definirei "copiativo", offendendo in primo luogo la loro capacità di evolversi, di "intelligere" secondo l'unicità che contraddistingue gli esseri umani. L'artista, in fondo, ha una problematica che è tipicamente sua, che gli appartiene è il riscontro continuo della propria identità. Se questo viene a mancare, se non va alla ricerca di se stesso per un maggior rispetto degli altri non può essere un artista. Anche per queste ragioni non può esistere la "semplicità" in arte che è il rapporto fra l’essere e la globalità. Sto parlando di arte come arte, di concetto artistico, anche se molte volte si cita l'arte come una condizione, quella che spinge l'artista a soffermarsi su determinate linee, su terminati schemi perché succube dell'insicurezza di non essere riconosciuto. Questa mancanza di conoscenza dei propri limiti e delle proprie possibilità comporta un assoggettamento alla massificazione attuato pur di avere una identità.



Cos’è allora lo "stile" in arte?

Lo stile non esiste. Non saprei neppure definirlo nella sua accezione artistica a meno che non si parli di eleganza, di moda. Un'opera d'arte deve "parlare", sempre. Il giorno in cui cessa di comunicare significa che non è un'opera d'arte. Vede, io intendo un'opera d’arte come una porta o una finestra o un pertugio in cui un individuo possa entrare, o dire, quando e come vuole. Dare, ad esempio, il titolo ad un'opera è una comodità per chi vuole leggere l'opera stessa, è una definizione schematizzata, chiusa, ed è una pseudo-comodità che comunque ostacola la voglia di interpretarla, di definirla, di apprezzarla secondo canoni personali. L'artista non deve porsi il problema del titolo. La sua unica preoccupazione dovrebbe essere quella di "sfogare" in un'opera tutta la sua creatività, tutta la sua abilità, tutta la sua voglia di giocare. Il gioco è importantissimo, basti pensare a quante grandi scoperte, quante grandi invenzioni sono state fatte per gioco e grazie alla voglia di giocare. Non parlo, ovviamente, dei giochi di squadra, di quelli con i tifosi al seguito, parlo del grande gioco che un artista dovrebbe sempre fare con se stesso interpretando tutti i ruoli possibili e, forse, qualcuno in più. Parlo del gioco della fantasia, di quello che permette di superare tutte le convenzioni, gli schemi e i limiti della stessa natura umana.

Lei sta scardinando uno dei concetti-chiave della visione romantica, e un po' retrò, dell'artista che crea, che compone solo macerandosi nel dolore, nella prostrazione e nella sofferenza...

Nulla di più falso. L'opera non nasce mai dalla sofferenza anche perché il piacere del dispiacere è un piacere assoluto, è un piacere che nasce dalla conoscenza. Quando l’uomo conosce, conquista ed ha un'opportunità in più.



Non crede che Van Gogh, tanto per fare un nome, abbia sublimato il concetto di piacere assoluto del dispiacere che lei ha appena espresso?

A modo suo credo proprio di si, perché questa idea può essere applicata anche nei confronti della pazzia, non intesa come malattia mentale, ma come l'atteggiamento di un individuo, in questo caso un artista, che si pone fuori da ogni logica, da ogni morale, da ogni convenzione, da ogni canone di presunta “normalità” . Tutto ciò, ovviamente, non può essere accettato dagli individui “normali” che tirano in ballo, a sproposito, la pazzia per mera paura. Il porsi fuori è un atteggiamento estremamente rivoluzionario. C'è un altro concetto, poi, che va completamente ribaltato, ed è quello della "irresponsabilità" a cui, in arte, va tolto ogni significato negativo. Un artista "responsabile" non potrà mai essere un artista creativo e, quindi, un artista. Io cerco di seguire molto i giovani perché dotati di quella "sana" irresponsabilità che li rende creativi al massimo, nell'arte come nella moda, nella musica come nel costume. Tralasciando tutti coloro che sul mercato dei giovani speculano, assecondando la loro particolare visione della vita, devo però dire che mai, come oggi, ho visto giovani "invecchiare" tanto precocemente cosa che, ad un artista, non succede anzi, un artista più invecchia e più diventa giovane. Vede, in passato abbiamo avuto esempi mirabili. Ho avuto la fortuna di conoscere artisti ultraottantenni assolutamente "bambini" e non perché rimbambiti, ma perché avevano dentro una forza e una semplicità, pur nella complessità delle loro elaborazioni, che solo i bambini hanno.
Ci sono stati artisti che, risolti i problemi legati al vivere quotidiano, ai quadri da vendere per mangiare, giunti a sessant'anni, raggiunta l'indispensabile libertà dal contingente, hanno dato sfogo a tutta la loro creatività in barba a coloro che io definisco "i vicini di casa", che poi sono quelli che distruggono il mondo dell'arte, quelli che spingono un artista ad adattarsi. Un artista che a cinquant'anni va in crisi, che non riesce più ad esprimersi è un artista che prima ha sempre copiato, che si è sempre adattato e che, arrivato ad un certo punto non riesce a copiare neppure le sue copie. Può sembrare un'affermazione brutale ma è la verità.

Quand'è che si può parlare di artista "maturo"?

Dopo i sessant'anni, fino a cinquanta è ancora troppo "adulto", ha ancora schemi che lo legano, lo imprigionano, non gli permettono di lasciarsi andare, di giocare.



Qual è il suo rapporto con il tempo?

È quello di un artista che non torna mai sulle sue opere convinto che esse sono la conseguenza del tempo, del momento in cui le ha dipinte, attimi irripetibili che potrebbero trovare analogie con lo scorrere del tempo nella vita. Le faccio un esempio, se dipingo dieci quadri, uno di seguito all'altro, lei troverà dal primo all'ultimo una continuità di discorso. Se mi fermassi un'ora, sempre sulla stessa serie di dieci quadri, tra l'uno e l'altro lei vedrebbe esattamente la differenza di un'ora, stesso discorso se mi fermassi una settimana o un mese perché nel frattempo il tratto, il segno, il colore si saranno modificati sensibilmente. Il tempo trascorre con il trascorrere delle sensibilità. Ora lei pensi a quegli artisti che fanno sempre lo stesso segno per farsi riconoscere...

Magari scambiandolo per stile o per "cifra" artistica..

Già. Che tipo di rapporto hanno, secondo lei, con il tempo? E con la pittura? Io non disegno mai un quadro perché se lo disegnassi dovrei considerarlo come un'opera finita. Dovrei, insomma, prima pensarlo, poi disegnarlo, poi colorarlo, tutti passaggi che finirebbero, giustamente, per modificare il mio progetto originale mentre io ritengo che fra tela e colore non debbano esserci altri elementi se non il mio pensiero e la velocità delle mie mani nel riprodurlo. Non potrei mai fare l'artigiano di me stesso, copiarmi o copiare.
Sono, fondamentalmente, un irresponsabile con tutto quello che comporta l’essere irresponsabili alla mia età. Purtroppo non ho il senso della misura, delle dimensioni, perfino con il denaro ho un pessimo rapporto, nel senso che non ho proprio alcun rapporto.
Gli artisti, da questo punto di vista, dovrebbero essere maggiormente tutelati, anche perché i mecenati di una volta non esistono più e si stanno prepotentemente affacciando sulla ribalta dell'arte i "pittori della domenica", quelli che, frustrati dal loro lavoro di impiegati statali, di bancari, di onorevoli buoni solo per votare, sfogano nella pittura il loro bisogno di visibilità sociale. Sono i pittori che trovano sovvenzioni, che hanno denaro a disposizione per pubblicizzarsi, che qualche critico amico sorregge e che, comunque, rompono un equilibrio fatto di professionalità, estro e creatività...



Secondo lei, allora, quanti sono gli artisti-artisti?

Di artisti veri, oggi, ne esistono pochi, pochissimi. Di tutte le cose che vedo e seguo il 99 per cento è da cancellare. E non è un fatto legato alla presunzione. Artisti bravi, che sono diventati strumenti di galleristi o di critici, che vivono veri e propri psicodrammi collettivi legati al loro delirio di onnipotenza, ce ne sono molti ma nessuno è in grado di sganciarsi da questi meccanismi perversi. Connivenza? Accondiscendenza? Debolezza verso i compromessi? Faccia lei, per mio conto ho cercato di delinearle una situazione di fatto.

Parliamo dei critici d'arte, quelli che condizionano pesantemente il mercato, cosa ne pensa Vittorio Amadio?

Le porto ancora un esempio personale. Ci sono critici (bravi e non), che vengono nel mio studio, si mettono davanti a un' opera, la guardano e poi mi chiedono: "Che titolo ha?". Io rispondo tranquillamente: "Nessuno". "Ma che cosa vuoi dire con questo quadro?". "Niente" rispondo io. Vanno tutti in bambola, non riescono ad afferrare il senso delle cose che faccio. C'è gente, purtroppo, che siccome si ritiene brava a scrivere pensa di poter fare il critico d'arte. Nulla di più falso, nulla di più scontato, nulla di nulla: il vuoto. Quelli bravi, sensibili, accorti, quelli che non fanno capo ai partiti e alle lobby affaristiche ma solo alla propria sensibilità e alla propria cultura, sono pochissimi. Però ci sono.

UItimamente abbiamo ascoltato un critico che parlava di "arte democratica" e di democrazia nell'arte", può dirci se accanto all'arte democratica è mai esistita un'arte "tirannica"?

Vorrei dire a questo critico di farmi un esempio di arte democratica ma non concettualmente, concretamente, graficamente. L'arte è qualcosa in cui uno deve arrivare con le proprie capacità, con le proprie sensibilità. Si può anche non capire l'arte ma, di fronte ad un'opera, se si ha la capacità di emozionarsi si è sicuramente più critici più artisti degli intellettuali che cercano di definire, comunque, cose e tematiche che non gli appartengono. In molti casi è la semplicità che ci porta a capire. L'arte “tirannica" può esistere, anzi, esiste. È quella che ti tiene avvinto ad un'opera per ore, semplicemente a guardarla.

Il concetto di “arte democratica” può riguardare, ad esempio, la possibilità di porsi davanti ad un dipinto senza la necessità di grandi “interpretazioni”?

Se lei va al mercato troverà centinaia di quadri riconducibili al concetto di arte “democratica”. Un fiore, un volto è un volto, un paesaggio non potrà mai essere una natura morta. Sono quadri in serie che vengono venduti a molte lire sia nei mercati che nelle aste televisive. Cosa c'entra tutto ciò con l'arte? Ci sono delle persone che vengono da me dopo aver acquistato uno di questi dipinti alla modica cifra di dieci milioni e mi chiedono cosa ne penso. Come si può rispondere a una domanda del genere se non “Ti piace? Lo vedi bene a casa tua? Si? E allora?". Il soggettivismo in arte è una delle risorse dell'arte stessa.



Parlando degli artisti presenti oggi sul mercato dell'arte, poco fa ci ha detto che il 99 per cento è da cestinare, ne è convinto?

Io stimo moltissimi artisti, principalmente quelli che interpretano l'arte nel modo giusto, ma sono convinto che esistano anche moltissimi presuntuosi. L'artista, fondamentalmente è un generoso, non è venale. In molti casi è costretto ad esserlo perché non ha possibilità economiche e deve, come si dice, tirare la cinghia. Se un artista potesse spenderebbe tutto il suo denaro nell'arte e per l'arte. Io ho una piccola, personale collezione di artisti che stimo, che mi piacciono. Molte volte i critici me lo hanno rimproverato. Mi hanno rimproverato il fatto che avessi opere di altri artisti, di colleghi che amo e che ammiro quando l'artista, secondo loro, non accetta altri se non stesso. Non posso farci nulla se alcune opere di altri mi permettono di sognare alla stessa stregua delle mie.

A proposito di altri artisti, quali sono i suoi punti di riferimento pittorici, naturalmente se ne ha?

Mi cito. Vittorio Amadio è un autodidatta. Sono stato un imprenditore, ho lavorato molti anni nelle compagnie petrolifere. Dipingevo e scolpivo ma tutto ciò non mi permetteva quell'autonomia economica che è indispensabile ad un artista per sopravvivere e per far vivere dignitosamente la sua famiglia. Non ho mai fatto ufficialmente l'artista per tutto il tempo in cui sono stato alle dipendenze di altri. Poi, venticinque anni fa, mia moglie mi ha detto "Basta, sei un artista, fa l'artista". Ho abbandonato tutto e tutti, compresi quelli che venivano da me a chiedere un paesaggio considero l'espressione minima della dimensione artistica (senza nulla togliere ai maestri che lo hanno reso immortale). Rifuggendo da ogni possibile compromesso, e avendo voglia di dipingere paesaggi, li indirizzavo ad altri colleghi più sensibili ai paesaggi e ai soldi. Oggi, chi chiede una mia opera la chiede e basta.

Ma ci saraanno comunque artisti del passato, o del presente, che hanno condizionato la sua arte...

Non ho, fortunatamente, avuto maestri del genere che ti condizionano per la vita. Ho avuto, ed ho, un grande amore per le ultime produzioni di Michelangelo.

amo Bosch perché mi fa sognare. Nel '400 è stato l'inventore del surrealismo, della dimensione onirica in arte, dell'invenzione. Amo Picasso perché è il tutto e il contrario di tutto, anche se è rimasto fortemente legato, per tutta la sua vita ad una sorta di classicismo frutto della scuola che aveva alle spalle. Non mi ritrovo nel surrealismo ma ci sono delle cose di Dalí che non posso non amare. Adoro il “bambino” che c’è in Mirò, con tutto ciò che comporta in termini di colore e movimento. Poi mi piace la prolificità di questi artisti. Picasso, ad esempio, ha fatto oltre 47mila opere e 200mila multipli. Lo invidio molto anche se, rispetto ai multipli, credo di averne fatto qualcuno in più.



Perché, allora, i critici hanno avuto, ed hanno, problemi con gli artisti che hanno una vasta produzione?

Chiariamo questa cosa una volta per tutte. Ci sono artisti che non sono più capaci di dipingere un quadro. Ci sono, al contrario, quelli che non li dipingono per paura di farne troppi. Molti non hanno la possibilità materiale di dipingere, non hanno le tele, i pennelli, i colori...

Quanto incide il mercato rispetto alla produzione delle opere? È vero che rappresenta di per sè un freno?

Il mercato vuole garantirsi. Ma lei deve spiegarmi come fa il mercato a garantirsi rispetto ad un artista che ha venti opere. I quadri, le opere devono girare, essere il maggior veicolo pubblicitario di se stesse, se uno non le ha, cosa può proporre?
Ci sono galleristi che alla morte di un pittore, si dividono le opere, dieci a testa. Come potranno essere viste se non saranno esposte nelle gallerie d'arte, nelle mostre, facendole apprezzare e, quindi, valutare? In quale catalogo degli artisti del '900 appariranno mai? Se Picasso avesse fatto 100 opere e non 47 mila chi lo avrebbe conosciuto?



Quale importanza hanno i multipli rispetto alla conoscenza di un artista?

I multipli sono fondamentali, permettono di comunicare. Con i miei ho rivoluzionato anche il mondo della grafica che, fino a 10/15 anni fa era contrassegnata da una forte staticità. La morte della grafica è, per me, colpa della scuola. La scuola, come struttura, tende a schematizzare tutto compresa la libertà espressiva, in questo L’Accademia è maestra. Così come la fine della pittura è riconducibile alle botteghe d'arte, luoghi in cui la capacità-possibilità di crescita è stata sempre fortemente condizionata dalla "personalità" dell'insegnante.

Cosa dovrebbe fare, o essere allora la scuola?

La scuola dovrebbe semplicemente insegnare l'uso degli strumenti, essere un mezzo e non un fine per arrivare all'arte. Mi permetta di farle un esempio che parte dall'esperienza personale di mia figlia. Il suo insegnante di grafica commissionò alla classe il "logo" di un'azienda, nulla di più semplice: carta intestata e biglietto da visita.

Mia figlia si presentò con un centinaio di bozzetti. Il professore glieli scartò tutti. Facemmo una riprova, adattando alla grafica dell'azienda cose che lo stesso professore aveva realizzato venti anni prima. Lo sa che mia figlia si prese tutti i complimenti possibili? L'arte non è assimilazione né omologazione, l'arte è l'espressione più libera del pensiero umano e gli insegnanti non dovrebbero essere altro che catalizzatori delle tensioni artistiche dei loro alunni, non “censori” come spesso accade o, peggio, percepire i ragazzi come potenziali rivali.

Chi è, secondo lei, un artista?

E’ una persona che riesce a vedere cose che altri non vedono, a sentire cose che altri non sentono, a percepire cose altrimenti latenti, nell'aria, come pulviscolo atmosferico. È un attento osservatore del suo tempo, della sua contemporaneità, è un irresponsabile consapevole di esserlo e, nonostante tutto, figlio del suo tempo. È uno che inventa il proprio lavoro giorno dopo giorno convinto che, alla fine, il suo unico mestiere sia quello di vivere e di raccontare, esserci e comunicare. È un bambino al quale non puoi rubare le caramelle né togliergli il gusto di giocare. É, davvero, il tutto e il suo contrario.